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Sandra Binion concentra l’attenzione lungo il gradiente d’incontro tra due energie contrapposte: conservare e distruggere. Un gradiente che potremmo chiamare forma. Le forme le piacciono, e riesce a trovarne anche nel processo di dissoluzione. Anche dove nessuno si cura di vederle.

Raccoglie organismi in decadenza. A dire il vero, trattiene tutto quello che è umanamente possibile trattenere. Nei quaderni troviamo, accanto ai più prevedibili schizzi, anche ricevute di bancomat, biglietti di treni, etichette dell’acqua minerale, conti di trattoria che si mostrano, a un tratto, in una luce nuova.

Singolare, come riesca a fermare sull’orlo dell’abisso anche la memoria del più perituro e transitorio tra gli oggetti: il denaro speso. La meno stabile tra le forme, la più convertibile, forse la più irreale.

Ovunque vada, trova qualcosa, anche là dove nessuno noterebbe niente. Dove passa, tornano a vivere cose che parevano morte. Il suo è il gesto di chi resuscita, richiama Lazzaro dal sepolcro e mostra quanto ci sia ancora da vedere.

Quando è venuta nel mio giardino, mi ha colpita la pazienza nel raccattare, nel fermarsi a guardare quanto altri avrebbero scartato, dato per ormai spacciato. Quando la norma è l’indifferenza, lasciare che le cose che stanno per sparire spariscano inosservate, senza premurarsi di notare come proprio un attimo prima di venir meno possa manifestarsi, con intensità forse acuita, una certa speciale bellezza. Quasi che, nell’attimo in cui rendono l’anima a Dio, le cose sprigionassero, per un attimo e quell’attimo soltanto, una qualità che resta invisibile quando il corpo, godendo perfetta salute, è troppo spesso, troppo turgido, troppo opaco. Troppo materiale.

Rifiuta di catalogare come spazzatura quanto il mondo considera tale: frutti marci, fiori sfatti, biglietti usati, le cose in genere che non hanno più corso, non hanno più uso di mondo.

In Ennesbo, progetto incentrato sulla fattoria avita, raccontava la bellezza delle cose lise, consumate, ma anche la malinconia di non poterle trattenere, se non in certe tradizioni: il tacchino cotto nel sudario come da ricetta di famiglia, il ciliegio da cui hanno raccolto ciliegie generazioni di antenati, e che anche lei coglie ritrovando una connessione gentile con la terra.

Nostalgia, in parte, ma anche una riflessione sull’arte: che sia arte quanto è perfettamente inutile, eppure invita a una sosta il distratto pilota automatico?

Sandra Binion sgrana, gonfia, ingrandisce le forme ritratte fino a rendere palpabile l’invisibile. Molti gli sgocciolamenti: quelli che un acquarellista alle prime armi ottiene senza volerlo, facendo anzi di tutto per evitarli. Mentre lei li cerca di proposito, anche lasciando le sue opere esposte alla pioggia, indifese di fronte all’azione delle intemperie e del tempo. Acqua che goccia è transito, impermanenza.

Come nel mondo fluttuante del giardino, un mondo di trasformazioni continue.

Nella tradizionale pittura botanica, una sorta di censura inespressa ha confinato la descrizione ai momenti sorgivi e compiuti – seme, fiore, frutto, gemma, radice, foglia verdeggiante. Confinando a pochi tratti discreti di pennello il memento mori: una mosca su uno stelo, una chiocciolina che rosicchia una foglia. Sandra Binion si spinge più in là: a un passo dal ritorno alla terra.

-Pia Pera

"Botanica" -- essay by Pia Pera (Italian version)
2011